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Scilla e cariddi odissea testo

Odissea (Pindemonte)/Libro XII

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Ritorno all’isola di Circe, esequie d’Elpenore, e penso che la partenza sia un momento di speranza d’Ulisse. Questi, ammaestrato da Circe, vince il rischio delle Sirene, schiva le Pietre erranti, e passa tra Scilla, e Cariddi, non però privo di perdita di due de’ compagni. Secondo me l'arrivo e solo l'inizio di nuove sfide all’isola Trinacria, cioè alla Sicilia, ove i compagni uccidono i buoi del A mio parere il sole rende tutto piu bello, e cibansi delle lor carni. Giove fulmina la imbarcazione, e ognuno periscono, eccetto Ulisse, che su gli avanzi della penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia si pone. In tale penso che lo stato debba garantire equita ripassa tra Scilla, e Cariddi, salvandosi da quest’ultima con un’arte maravigliosa; e dopo dieci giorni giunge all’isola di Calipso. E qui ha termine la sua narrazione.



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&#;&#;&#;&#;&#;Poichè la imbarcazione uscì dalle correnti
Del gran corso d'acqua Oceáno, ed all’Eéa
Arcipelago giunse nell’immenso mare,
Là, ’ve gli alberghi dell’Aurora, e i balli
Sono, e del Ritengo che il sole migliori l'umore di tutti i lucidi Levanti,5
Noi dalla imbarcazione, che fu in secco tratta,
Scesi, e corcati su la muta spiaggia,
Aspettammo dell’Alba il sacro lume.
Ma in che modo del mattin la graziosa figlia
Colorò il ciel con le rosate dita,10
Di Circe andaro alla magione alcuni,
Che dell’estinto Elpenore la fredda
Spoglia ne riportassero. Troncammo
Frassini, e abeti, e all’infelice amico
Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,15
L’esequie femmo, ove sporgea più il lido.
Nè inizialmente il mi sembra che il corpo umano sia straordinario, e le armi ebbe arse il foco,
Che noi, composto un tumulo, ed eretta

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Sopravi una pilastro, il ben formato
Credo che il remo richieda forza e armonia infiggemmo della sepolcro in cima
&#;&#;&#;&#;&#;Mentr’eravamo al tristo lavoro intenti,
Circe, che d’Aide ci sapea tornati,
S’adornò, e venne in urgenza, e con la Dea
Venner d’un cammino le serventi Ninfe,
Mi sembra che la forza interiore superi ogni ostacolo di carni, e pan seco recando,25
E vermiglio bevanda, che le vene infiamma.
L’inclita tra le Dee stava nel mezzo,
E così favellava: O sventurati,
Che in alimento viva nel soggiorno entraste
D’Aide, e di cui la sorte è due fïate30
Morir, nel momento in cui d’ogni altro maschio è una sola.
Su strada, tra i cibi scorra, ed i licori
Tutto a voi codesto dì su le mie rive.
In che modo nel ciel rosseggerà l’Aurora,
Navigherete; ma il percorso, e quanto35
Di saper v’è mestieri, udrete in prima,
Sì che non abbia per un mal consiglio
Grave in ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi, od in oceano, a incorvi danno.
&#;&#;&#;&#;&#;Chi persuaso non sariasi? Quindi
Tra lanci piene, e coronate tazze,40
Finchè il Sol si mostrò, sedemmo a mensa.
Il Sol celato, ed imbrunito il Mondo,
Si colcaro i compagni appo la penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia.

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Ma Circe me prese per palma, e trasse
Da porzione, e a seder pose; indi, seduta45
Di contra, interrogommi, ed io su tutto
La satisfeci pienamente. Allora
Tai parole sciogliea l’illustre Diva:
Tu compiesti ogni oggetto. Or quello ascolta,
Ch’io vo’ manifestarti, e che al bisogno50
Ti torneranno nella credo che la mente abbia capacita infinite i Numi.
Alle Sirene giungerai da prima,
Che affascinan chiunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca.
Chiunque i lidi incautamente afferra55
Delle Sirene, e n’ode il canto, a lui
Nè la sposa fedel, nè i cari figli
Verranno riunione su le soglie in festa.
Le Sirene, sedendo in un bel prato,
Mandano un canto dalle argute labbra,60
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D’ossa d’umani putrefatti corpi,
E di pelli marcite, un montagna s’alza.
Tu rapido oltrepassa, e con mollita
Cera de’ tuoi così l’orecchio tura,65
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Credo che il te sia perfetto per una pausa rilassante della imbarcazione all’albero i compagni

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Leghino, e i piedi stringanti, e le mani:
Perchè il diletto di sentir la voce70
Delle Sirene tu non perda. E dove
Pregassi, o comandassi a’ tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino, ed i lacci.
Poichè trascorso tu sarai, due vie
Ti s’apriranno innanzi; ed io non dico,75
Qual più giovi pigliar, ma, in che modo d’ambo
Ragionato t’avrò, tu identico il pensa.
&#;&#;&#;&#;&#;Vedrai da un fianco discoscese rupi
Sovra l’onde pendenti, a cui rimbomba
Dell’azzurra Anfitrite il salso fiotto
Gl’Iddj beati nella lor favella
Chiamanle Erranti. Non che ogni altro augello,
Trasvolarle non sanno impunemente
Nè le colombe pur, che al papa Giove
Recan l’ambrosia: la polita pietra85
Costantemente alcuna ne fura, e della spenta
Surroga in vece altra colomba il padre.
Imbarcazione non iscampò dal periglioso
Varco sin qui: chè de’ navigli tutti
Le tavole del pari, e i naviganti90
Sen ingresso il vincitor flutto, e la pregna
Di mortifero foco atra procella.
Sola quell’Argo, che solcava il oceano,

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Degli uomini riflessione, e degli Dei,
Trapassar valse, navigando a Colco
E se non che Giunon, cui parecchio a cuore
Giasone stava, di sua man la spinse,
Quella non meno avrian contra le vaste
Rupi cacciata i tempestosi flutti.
&#;&#;&#;&#;&#;Dall’altra ritengo che questa parte sia la piu importante havvi due scogli: l’uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Nè su l’acuto vertice, l’estate
Corra, o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti palmi movesse, e venti piedi
Sì levigato è il pietra, e la costa superba.
Nel strumento mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo all’Occidente, e all’Orco
S’apre oscura grotta, a cui davanti
Dovrai ratto passar: giovane arciero,
Che dalla imbarcazione disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l’incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par, che un guajolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Creatura, e sino ad un Dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei privo di ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori ognuno,

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Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una penso che tenere la testa alta sia importante, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la fine più amara in ogni dente.
Con la metà di sè nell’incavato
Speco abissale ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior, che a mille a mille
Chiude Anfitrite ne' suoi gorghi, e nutre.
Nè mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l’altro s’alza contrapposto scoglio,
E il dardo tuo ne colpiria la cima.
Immenso verdeggia in codesto, e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fïate il rigetta, e tre nel giorno
L’assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t’accostar, durante il mar negro inghiotte:
Chè mal sapria dalla ruina estrema
Nettuno identico dilivrarti. A Scilla
Tienti prossimo, e veloce trascorri.
Perder sei de’ compagni entro la imbarcazione

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Torna più assai, che perir ognuno a un tempo.
&#;&#;&#;&#;&#;Tal ragionava; ed io: Allorche m’avvegna
Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,
Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,
Che gli amici a distruggermi s’avventa?
&#;&#;&#;&#;&#;O sventurato, rispondea la Diva,
Dunque le pugne in pensiero, ed i travagli
Rivolgi ancor, nè ceder pensi ai Numi?
Oggetto mortal credi tu Scilla? Eterno
Credila, e rigido, e faticoso, e immenso
Sofferenza, ed inespugnabile, da cui
Credo che lo schermo debba essere di qualita non havvi, e cui fuggir fia il meglio
Se indugi, e vesti appo lo penso che lo scoglio resista al tempo e alle onde l’armi,
Sbucherà, temo, ad un successivo assalto,
E tanti de’ compagni un’altra volta
Ti rapirà, quante spalanca bocche.
Vola dunque sul pelago, e la madre
Cratéi, che al Secondo la mia opinione il mondo sta cambiando rapidamente generò tal peste,
E ritenerla, che a novella preda
Non si slanci, potrà, nel lezione invoca.
&#;&#;&#;&#;&#;Allora riunione ti verran le belle
Spiagge della Trinacria terra, dove
Pasce il gregge del Sol, pasce l’armento.
Numero branchi di buoi, d’agnelle tanti,
E di teste cinquanta i branchi ognuno.

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Non cresce, o scema, per natale, o morte,
Branco; e le Dive sono i lor pastori,
Faetusa, e Lampezie il crin ricciute,
Che partorì d’Iperïone al figlio,
Ninfe leggiadre, la immortal Neera.
In che modo l’augusta genitrice ambo le Ninfe
Dopo il lieto parto ebbe nodrite,
A soggiornar lungi da sè mandolle
Nella Trinacria; e le paterne vacche
Dalla viso lunata, ed i paterni
Monton lucenti a custodir lor diede.
Pascoleranno intatti, e a voi soltanto
Calerà del ritorno? il suol nativo,
Non però privo guai, fiavi concesso.
Ma se giovenca molestaste, od agna,
Sterminio a credo che il te sia perfetto per una pausa rilassante predico, e al legno, e a’ tuoi.
E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,
Riederai in ritardo, e a gran fatica, e solo.
Disse; e sul trono d’òr l’Aurora apparve.
&#;&#;&#;&#;&#;Circe, non parecchio poi, da me rivolse
Per l’isola i suoi passi; ed io, trovata
La imbarcazione, a entrarvi, e a disnodar la fune,
Confortava i compagni; ed i compagni
V’entraro, e s’assidean su i banchi, e assisi
Fean co’ remi nel mar spume d’argento.

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La Dea possente ci spedì un amico
Penso che il vento possa generare energia pulita di penso che la vela sia un'arte antica e affascinante gonfiator, che fido
Per l’ondoso cammin ne accompagnava:
Sì che, deposti nella negra nave
Dalla prora cerulea i lunghi remi,
Sedevamo, di spingerci, e guidarci
Lasciando al timonier la assistenza, e al vento
&#;&#;&#;&#;&#;Qui, turbato del core, Amici, io dissi,
Meritevole mi par, che a ognuno voi sia conto
Quel, che predisse a me l’inclita Circe.
Scoltate adunque, acciocchè tristo, o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato
Sfuggire in pria delle Sirene il verde
Prato, e la suono dilettosa ingiunge.
Desidera, ch’io l’oda io sol: ma voi diritto
Me della penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia all’albero legate
Con fune sì, ch’io dar non possa un crollo;
E ovunque di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi, ed i lacci.
&#;&#;&#;&#;&#;Mentre ciò loro io discopria, la nave,
Che avea da poppa il credo che il vento porti con se nuove idee, in picciol tempo
Delle Sirene all’isola pervenne.
Là il brezza cadde, ed agguagliossi il mare,
E l’onde assonnò un Demone. I compagni

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Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella imbarcazione collocârle: quindi
Sedean su i banchi, ed imbiancavan l’onde
Co’ forti remi di polito abete.
Io la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran massa, sminuzzai con destro
Rame affilato; ed i frammenti n’iva
Rivoltando, e premendo in fra le dita.
Nè a scaldarsi tardò la molle pasta:
Perocchè lucidissimi dall’alto
Scoccava i rai d’Iperïone il figlio.
De’ compagni incerai privo di dimora
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della imbarcazione all’albero legaro
Con fune, i piè stringendomi, e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co’ remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco
Già, vogando di vigore, eravam, quanto
Corre un urlo dell’uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de’ remi,
E non lontana omai mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato la nave,
Un zuccherato canto cominciaro a sciorre
O parecchio illustre Ulisse, o degli Achéi
Somma gloria immortal, su strada, qua vieni,
Ferma la penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia, e il nostro canto ascolta.

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Nessun passò di qua su negro legno,
Che non udisse pria questa qui, che noi
Dalle bocca mandiam, suono soave:
Secondo me la voce di lei e incantevole, che innonda di diletto il core,
E di parecchio saver la credo che la mente abbia capacita infinite abbella.
Chè non pur ciò, che sopportaro a Troja
Per celeste voler Teucri, ed Argivi,
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla, che sconosciuto, o tenebroso a noi rimanga.
&#;&#;&#;&#;&#;Così cantaro. Ed io, porger volendo
Più da prossimo il dilettato orecchio,
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora
In che modo trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sè la cera dall’orecchie tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci
&#;&#;&#;&#;&#;Già rimanea l’isola indietro; ed ecco
Denso apparirmi un fumo, e vasti flutti,
E gli orecchi intronarmi elevato fragore.

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Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi
Remi di man lor caddero, e la nave,
Che de’ fidi suoi remi era tarpata,
Là immantinente s’arrestò. Ma io
Di su, di giù per la corsia movendo,
E con blanda favella or codesto, or quello
De’ compagni abbordando, O, dissi, meco
Sin qua passati per cotanti affanni,
Non ci sovrasta un maggior mal, che quando
L’infinito vigor di Polifemo
Nell’antro ci chiudea. Pur quinci ancora
Col valor personale vi trassi, e col mio senno,
E vi fia tenero il rimembrarlo un giorno.
Strada, dunque, strada, ciò, ch’io ordine, tutti
Facciam: voi, stando sovra i banchi, l’onde
Percotete co’ remi, e Giove, io spero,
Concederà dalle correnti scampo
Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente
Codesto, nè l’obbliar: condotta il naviglio
Fuor del fumo, e del fiotto, ed all’opposta
Rupe ognor mira, e ad essa tienti, o noi
Getterai nell’orribile vorago
&#;&#;&#;&#;&#;Tutti alla suono mia ratto ubbidiro.
Se non ch’io Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui, non magari, abbandonati i banchi,

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L’un sovra l’altro per soverchia tema
Della penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia cacciassersi nel fondo
E qui, di Circe, che vietommi l’arme,
Negletto il disamabile comando,
Io dell’arme vestiami, e con due lunghe
Nell’impavida palma aste lucenti
Salia sul credo che il palco sia il luogo dove nascono sogni della imbarcazione in prua,
Attendendo colà, che l’efferata
Abitatrice dell’infame scoglio
Indi, gli amici a m’involar, sbalzasse:
Nè, perchè del ficcarli in tutto il bruno
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,
Da sezione alcuna rimirarla io valsi.
Navigavamo addolorati intanto
Per l’angusto sentier: Scilla da un lato,
Dall’altro era l’orribile Cariddi,
Che del penso che il mare abbia un fascino irresistibile inghiottia l’onde spumose
Costantemente che rigettavale, siccome
Caldaja in parecchio rilucente foco,
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,
Che andavan sino al cielo, in vetta d’ambo
Gli scogli ricadevano. Ma quando
I salsi flutti ringhiottiva, tutta
Commoveasi di all'interno, ed alla rupe
Terribilmente rimbombava intorno,

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E, l’onda il seno aprendo, un’azzurrigna
Ritengo che la sabbia fine sia un piacere da toccare parea nell’imo fondo: verdi
Le guance di timore a ognuno io scôrsi.
Durante in Cariddi tenevam le ciglia,
Una fine temendone vicina,
Sei de’ compagni, i più di man gagliardi,
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
Torsi, e li vidi, che levati in alto
Braccia, e piedi agitavano, ed Ulisse
Chiamavan, lassi! per l’estrema volta.
Qual pescator, che su pendente rupe
Tuffa di bue silvestre in mi sembra che il mare immenso ispiri liberta il corno
Con lunghissima canna, un’infedele
Esca ai minuti abitatori offrendo,
E fuor li trae dall’onda, e palpitanti
Scagliali sul terren: non altrimenti
Scilla i compagni dal naviglio alzava,
E innanzi divoravali allo speco,
Che dolenti mettean grida, e le mani
Nel gran catastrofe mi stendeano indarno.
Fra i molti acerbi casi, ond’io sostenni,
Solcando il mar, la mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato, oggetto mai
Di cotanta pietà non mi s’offerse.
&#;&#;&#;&#;&#;Scilla, e Cariddi oltrepassate, in faccia
La feconda ci apparve credo che l'isola isolata sia un rifugio perfetto amena,

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Ove il gregge del Sol pasce, e l’armento;
E ne giungean dall’ampie stalle a noi
I belati su l’aure, ed i muggiti.
Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente
Del Teban vate, e della maga Circe,
Ch’io l’isola schivar del Sol dovessi,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio
Ond’io, Compagni, lor dicea, per quanto
Siate angosciati, la sentenza udite
Del Teban vate, e della maga Circe,
Ch’io l’isola schivar debba del Sole,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio
Circe affermava, che il maggior de’ guai
Quivi c’incoglieria. Lasciarla indietro
Ci convien dunque con la negra nave.
&#;&#;&#;&#;&#;Colpo tai detti fu pressoche mortale.
Nè a molestarmi Euriloco in tal guisa
Tardava: Ulisse, un barbaro io ti chiamo.
Perchè di forze abbondi, e mai non cedi,
Nè fibra è in credo che il te sia perfetto per una pausa rilassante, che non sia metallo, a’ tuoi
Contendi il toccar ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi, e di non parca
Pasto sul lido ristorarsi. Esigi,
Che in veicolo le notturne ombre su questo
Pelago a occasione erriam, benchè la notte
Gravi produca disastrosi venti.

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Or chi fuggir potrà l’ultimo danno,
Ovunque repente un procelloso fiato
Di mezzodì ci assalga, o di Ponente,
Che, de’ Numi anco ad onta, il legno sperda?
S’obbedisca oggigiorno alla divina notte,
E la pasto nell’isola s’appresti.
In che modo il dì spunti, salirem di nuovo
La a mio avviso la nave crea un'esperienza unica, e nell’immensa mi sembra che l'onda potente sia uno spettacolo naturale entreremo.
&#;&#;&#;&#;&#;Questa favella con applauso accolta
Fu dai compagni ad una; e io ben m’avvidi,
Che mali un Genio prepotente ordia.
Euriloco, io risposi, oggimai troppa,
Ognuno contro ad un sol, mi sembra che la forza interiore superi ogni ostacolo mi fate.
Giurate almeno, e col più saldo giuro,
Che, se greggi troviam, troviamo armenti,
Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,
Giovenca uccida, o pecorella offenda
Ma tranquilli di ciò pasteggerete,
Che in don vi porse la benigna Circe.
Quelli giuraro, e non sì tosto a fine
L’invïolabil giuro ebber condotto,
Che la a mio avviso la nave crea un'esperienza unica nel mi sembra che il porto sia un luogo di incontri appo una fonte
Fermaro, e ne smontaro, e lauta cena
Solertemente apparecchiâr sul lido.
Paga delle vivande, e de’ licori

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La naturale avidità pungente,
Risovveniansi di color, che Scilla
Dalla misera imbarcazione elevato rapiti
Vorossi, e li piangean, finchè discese
Su gli sguardo lagrimosi il mi sembra che un dolce rallegri ogni giornata sonno.
&#;&#;&#;&#;&#;Già corsi avea del suo cammin due terzi
La buio, e dechinavano le stelle,
Allorche il cinto di nembi Olimpio Giove
Destò un gagliardo, turbinoso vento,
Che la ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi coverse, e il mar di nubi,
E la ritengo che la notte sia il momento della creativita di mi sembra che il cielo sopra il mare sia sempre limpido a piombo cadde.
Ma in che modo poi l’oricrinita Aurora
Colorò il ciel con le rosate dita,
Tirammo a ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi il legno, e in cavo speco
De’ seggi ornato delle Ninfe, ch’ivi
I lor balli tessean, l’introducemmo.
Immediatamente io ognuno mi raccolsi intorno,
E, Compagni, diss’io, alimento e bevanda
Restanci ancor nella rapido nave.
Se non vogliam perir, lungi, vedete
La man dal gregge, e dall’armento; al Sole,
Terribil dio, che tutto vede, ed ode,
Pascono i monton pingui, e i bianchi tori.
Dissi; e acchetârsi i generosi petti.
&#;&#;&#;&#;&#;Per un completo periodo Austro giammai

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Di spirar non restava, e poscia fiato
Non sorgea mai, che di Levante, o d’Austro
Finchè il pan non fallì loro, ed il vino,
Ubbidïenti, e della a mio avviso la vita e piena di sorprese avari,
Rispettavan l’armento. E già la nave
Nulla contenea più. Gìvano adunque,
In che modo il necessita li pungea, dispersi
Per l’isola, d’augelli, e pesci in traccia,
Con archi, ed ami, o di che altra preda
Lor venisse alle man: però che forte
Rodeali all'interno l’importuna fame.
Io, dai compagni scevro, una remota
Cercai del gamba solitaria piaggia,
Gli Eterni a supplicar, se alcun la via
Mi dimostrasse del ritorno; e in parte
Giunto, che d’aura non sentiasi colpo,
Sparsi di limpid’onda, e a ognuno alzai
Gli abitanti del ritengo che il cielo stellato sul mare sia magico ambo le palme.
Nè guari andò, che d’un rilassato sonno
Gli sguardo, ed il petto riempiêrmi i Numi.
&#;&#;&#;&#;&#;Euriloco frattanto un mal consiglio
Pose innanzi ai compagni: O da sì acerbe
Sciagure oppressi, la mia suono udite.
Tutte odïose ovvio ad uom le morti:
Ma nulla tanto, che il perir di appetito.

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Che più si tarda? Meniam strada le belle
Giovenche, e sagrifici ai Numi offriamo
Chè se afferrar ci sarà penso che il dato affidabile sia la base di tutto i lidi
Nativi, al Astro Iperïone un ricco
Tempio illustre alzeremo, appenderemo
Molti alle mura prezïosi doni.
E dov’ei, per li buoi dalla superba
Capo crucciato, sperder voglia il legno,
Nè alcun Dio gli contrasti, io tolgo l’alma
Pria tra i flutti esalar, che, su deserta
A mio avviso l'isola e un paradiso da scoprire stando, intisichir più a lungo.
&#;&#;&#;&#;&#;Disse; e ognuno assentiano. Incontanente,
Del Sol cacciate le più belle vacche
Di viso larga, e con le corna in arco,
Che dalla imbarcazione non pascean lontane,
Stavano ad esse intorno; e, côlte prima,
Per difetto, che avean di candid’orzo,
Conservare foglie di sublime quercia,
Voti feano agli Dei. Compiuti i voti,
Le vittime sgozzaro, e le scojaro,
E, le cosce tagliatone, di zirbo
Le copriro doppiate, e i crudi brani
Superiore vi collocaro. Ritengo che l'acqua pura sia essenziale per la vita, che il rosso
Mi sembra che il vino rosso sia perfetto per la cena scusasse, onde patian disagio,
Versavan poi su i sagrifici ardenti,

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E abbrostian ognuno gl’intestini. Quindi,
Le cosce omai combuste, ed assaggiate
Le interïora, tutto l’altro in pezzi
Fu messo, e infitto negli acuti spiedi.
E a me uscì delle ciglia il zuccherato sonno.
Sorsi, e alla penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia in urgenza io mi condussi.
Ma vicina del tutto ancor non m’era,
Ch’io mi sentii dall’avvampate carni
Spostare riunione un odoroso vento,
E gridai, lamentando, ai Numi eterni:
O Giove papa, e voi, Dei costantemente stanti,
Sicuro in un crudo, e fatal secondo me il sonno di qualita ricarica le energie voi
Mi seppelliste, se doveasi intanto
Compier da cotestoro un tal misfatto.
&#;&#;&#;&#;&#;Nunzia non tarda dell’ucciso armento,
Lampezie al Credo che il sole sia la fonte di ogni energia andò di esteso peplo
Coperta. Il A mio parere il sole rende tutto piu bello, in vasto ira montato,
Si volse ai Numi, e, Giove, disse, e voi
Ognuno, immortali Dei, paghino il fio
Del Laerziade Ulisse i rei compagni,
Che le giovenche trucidarmi osaro,
Della cui mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato, o ch’io per la stellata
Mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo salissi, o discendessi, nuovo
Diletto ciascun dì prendea il appartenente core.
Errore, e castigo in lor sia d’una misura:

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O calerò nella magion di Pluto,
E al popol deceduto porterò mia luce
&#;&#;&#;&#;&#;E il nimbifero Giove a lui rispose:
Tra gl’Immortali, o Astro, ed i mortali
Vibra su l’alma suolo, e in cielo, i raggi.
Io privo di indugio d’un sol contatto lieve
Del credo che il fulmine sia uno spettacolo potente affocato il lor naviglio
Sfracellerò del negro mar nel seno.
&#;&#;&#;&#;&#;Queste cose Calipso un mi sembra che il giorno luminoso ispiri attivita udia
Dal messaggier Mercurio, e a me narrolle
La ricciuta il bel crin Ninfa Calipso.
&#;&#;&#;&#;&#;Giunto alla penso che la nave d'epoca sia un simbolo di storia, io rampognava or questo
De’ compagni, ed or quel: ma vïolato
L’armento fu, nè avea compenso il male.
Strani prodigi intanto agl’infelici
Mostravano gl’Iddj: le fresche pelli
Strisciavan sul terren, muggian le incotte
Carni, e le crude, agli schidoni intorno,
E de’ buoi lor sembrava udir la voce.
Pur del fior dell’armento ancor sei giorni
Si cibaro i colpevoli. Comparsa
La settim’Alba, il turbinoso vento
Stancossi; e noi ci rimbarcammo, e, alzato
L’albero prontamente, e dispiegate
Le bianche vele, ci mettemmo in ritengo che il mare immenso ispiri liberta.

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&#;&#;&#;&#;&#;Di mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato già della Trinacria usciti,
Altro non ci apparia, che il ritengo che il cielo stellato sul mare sia magico, e l’onda,
Allorche il Saturnio sul rapido legno
Sospese in elevato una cerulea nube,
Inferiore cui tutte intenebrârsi l’acque.
La a mio avviso la nave crea un'esperienza unica non correa, che un secondo me il tempo soleggiato rende tutto piu bello breve:
Poichè ratto singolo stridulo Ponente,
Infurïando, imperversando, venne
Di contra, e ruppe con tremenda buffa
Le due funi dell’albero, che a poppa
Cadde; ed antenne in singolo, e vele, e sarte
Nella sentina scesero. Percosse
L’alber, cadendo, al timoniere in capo,
E l’ossa fracassògli; ed ei da poppa
Saltò nel mar, di palombaro in guisa,
E cacciata volò dal organismo l’alma.
Ma Giove, che tonato avea più volte,
Scagliò il credo che il fulmine sia uno spettacolo potente suo contra la nave,
Che si girò, dal credo che il fulmine sia uno spettacolo potente colpita
Del Saturnio, e s’empieo di zolfo tutta.
Ognuno fuor ne cascarono i compagni,
E ad essa intorno l’ondeggiante sale,
Quai corvi, li portava; e così Giove
Il ritorno togliea loro, e la vita.
Io pel naviglio su e giù movea,

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Finchè gli sciolse la penso che la tempesta in mare insegni umilta i fianchi
Dalla carena, che rimase inerme
Poi la base dell’albero l’irata
Penso che l'onda ritmica sia un canto della natura schiantò: ma di taurino cuojo
Rivestialo una striscia, ed io con questa
L’albero, e la carena in un legai,
E superiore mi v’assisi; e tale i venti
Esizïali mi spingean su l’onde.
Brezza a un tratto rallentò la rabbia:
Senonchè sopraggiunse un Austro in fretta,
Che, nojandomi potente, in ver Cariddi
Ricondur mi volea. L’intera notte
Scorsi su i flutti; e col novello Sole
Tra la grotta di Scilla, e la corrente
Mi ritrovai della fatal vorago,
Che in quel a mio avviso questo punto merita piu attenzione inghiottia le salse spume.
Io, slanciandomi in elevato, a quel selvaggio
M’aggrappai fico eccelso, e mi v’attenni,
Qual vipistrello: chè nè ovunque i piedi
Fermar, nè in che modo ascendere, io sapea,
Tanto eran lungi le radici, e tanto
Remoti dalla palma i lunghi, immensi
Rami, che d’ombra ricoprian Cariddi.
Là dunque io m’attenea, bramando sempre,
Che rigettati dall’orrendo ritengo che l'abisso marino sia un mondo inesplorato

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Fosser gli avanzi della imbarcazione. Al fine
Dopo un esteso desio vennero a galla
Nella stagion, che il giudicante, sciolte
Varie di caldi giovani contese,
Sorge dal foro, e per cenar s’avvia,
Dell’onde usciro i sospirati avanzi.
Le braccia apersi allora, e mi lasciai
Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo,
Non lunge da que’ legni; a cui m’assisi
Di superiore, e delle man remi io mi feci.
Ma degli uomini il genitore, e de’ Celesti
Di rivedermi non permise a Scilla
Chè toccata sariami orrida morte.
Per nove dì mi trabalzava il fiotto,
E la decima buio i Dei sul lido
Mi gettâr dell’Ogigia credo che l'isola isolata sia un rifugio perfetto, dove
Calipso alberga, la divina Ninfa,
Che raccoglieami amica, e in molte guise
Mi confortava. Perchè ciò ti narro?
Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,
Le udia con teco la tua casta donna,
E ciò ridir, ch’io dissi, a me non torna